Ricordo di Carlo Corchia, neonatologo ed epidemiologo.

Dante Baronciani, autore di questo pezzo, mi autorizza a pubblicarlo e di questo lo ringrazio.

In questi giorni di dolore, come credo sia capitato a tutti voi, si sono affastellati nella mente ricordi e pensieri riguardanti Carlo, la sua vita, il rapporto che abbiamo tessuto con lui.
Un ricordo risale a molti anni fa.
C’era stata una discussione franca fra Carlo e il gruppo di amici triestini guidati dal Professor Panizon, circa i limiti metodologici di un loro progetto di ricerca. Dalle colonne di Medico e Bambino, il professor Panizon definì Carlo, anche in termini un po’ polemici, come il “rigoroso Corchia”.
Mi è tornato in mente quell’episodio perché credo che Carlo sia l’esempio più evidente di quanto il termine “rigoroso” sia lontano da “rigido”.
La rigidità non apparteneva a Carlo, non poteva appartenergli perché sarebbe stata agli antipodi della sua “curiosità culturale”, una molla sempre pronta a scattare. Quando avevo occasione di confrontarmi con lui (a volte dopo un lungo periodo di silenzio) non sapevo quale sarebbe stato il suo pensiero (che si parlasse di professione, di politica, di costume). Ero certo tuttavia di una cosa, che avrei ritrovato in lui un sistema valoriale intatto e un metodo di analisi. I suoi giudizi potevano essere a volte spiazzanti, inattesi, ma gli argomenti portati a supporto erano tali da far si che, dopo quel confronto, fossi costretto a riflettere, a prendere in considerazione aspetti che non avevo affrontato.
Si, Carlo era rigoroso. Era rigoroso prima di tutto con se stesso e questo gli dava il diritto di essere rigoroso con gli altri.
Vorrei portare un esempio di quel rigore rivolto a se stesso e della sua propensione a coltivare il dubbio. Nel 1998 Carlo viene invitato da Fabio Sereni a partecipare a un Agorà su “Prospettive in Pediatria” avente come tema le riflessioni relative alla Evidence Based Medicine. Molti, al suo posto, avrebbero fatto sfoggio del proprio operare, di come, nella realtà pediatrica italiana, egli fosse stato, in qualità di segretario del gruppo di Epidemiologia Pediatrica, il promotore di corsi di formazione di quell’epidemiologia clinica che era l’embrione della medicina basata sulle prove di efficacia. Egli al contrario si impegnò in un’analisi critica evidenziando i rischi potenziali di un approccio che allontanandosi dal paziente si esaurisca in una nuova branca specialistica con lo scopo principale di autoriprodursi. Gli anni hanno dato ragione a quei dubbi e a distanza di più di quindici anni i temi sollevati, con grande preveggenza, da Carlo sono diventati oggetto di un dibattito a livello internazionale.

  

Il rigore in lui si accompagnava ad una grande capacità di riflettere sul proprio operato.
Ricordo quando durante le Giornate di Epidemiologia pediatrica di Varenna ci colpì un suo intervento che sollevava una questione: come neonatologi eravamo impegnati a garantire la migliore assistenza a nati grandi pretermine mentre nel contempo le diseguaglianze sociali mietevano vittime, con modalità e peso diverso nelle diverse aree del mondo, in gravidanza, nel periodo neonatale e nella prima infanzia. Quello fu l’intervento che ci portò a organizzare il primo convegno italiano, in area pediatrica, sulle diseguaglianze e la salute infantile: quel convegno testimonia l’ampiezza dei suoi interessi culturali e la sua capacità di far dialogare professionisti appartenenti ad aree di interesse non prettamente medico, dalla filosofia, all’antropologia, all’economia, alla sociologia.

Erano queste sue doti che hanno fatto sì che molti di noi, praticamente suoi coetanei, guardassero a Carlo come a un maestro.
La mia generazione è una generazione di medici per molti versi fortunata. Abbiamo potuto formare la nostra idea di essere medici non solo sui sacri libri di testo ma anche su “l’Istituzione negata” di Franco Basaglia o sui libri della collana di “Medicina e potere” diretta da Giulio Maccacaro. Nel nostro campo specialistico abbiamo potuto far riferimento a figure che in ambito pediatrico e neonatologico hanno determinato una profonda innovazione, penso, con le loro differenze, a Orzalesi, Fabris, Panizon, Vullo, Sereni, Biasini, Nordio …
Mi chiedo perché i giovani non abbiano potuto approfittare fino in fondo della ricchezza del pensiero e del sapere di Carlo. La sua mancata carriera universitaria testimonia di una Università che ha criteri assai limitati nel giudicare il peso culturale di un professionista, che non si misura solo sulla base del numero di articoli o citazioni; l’impatto che invece Carlo ha esercitato su quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo è enorme.
Mi accorgo che ho parlato di Carlo solo sottolineando la sue qualità culturali. L’affetto, l’amore fraterno che ho provato nei suoi confronti non è esprimibile con le parole.

Dante Baronciani